DI LILIA BELLUCCI

Continuate a chiedere cosa potete leggere in questi giorni, chiusi nelle vostre stanze.

Io continuo a pensare che la lettura sia un’esperienza di innamoramento e vi auguro di avere questo incontro nella vostra vita, un incontro destinato poi a rinnovarsi e moltiplicarsi all’infinito. A volte persino si riprende da uno scaffale un libro già letto e riaprendolo, si interpreta in modo nuovo.

Così accade ad alcuni dei vostri genitori, innamorati da sempre, perché sanno riscoprire uno negli occhi dell’altro, uno nell’anima dell’altro, sempre nuove vie da percorrere, nuovi sentimenti da condividere. Così accade quando parlate con un coetaneo che conoscete da tempo e improvvisamente vi accorgete di non aver mail letto le sue “pagine” interne e iniziate a frequentarlo più assiduamente.

Le città invisibili di Calvino è per me un innamoramento felice.

Contiene in sé i miei pensieri di ieri e quelli di questa mattina. Vi avevo già proposto la sua lettura per uno dei nostri tè letterari, ma le circostanze ci hanno separato con questa distanza prolungata. La nostra piattaforma ci permette di ritrovarci in questo luogo virtuale, in questa agorà in cui risuonano i miei pensieri, ma in cui gradualmente cominciano a sentirsi le vostre parole, quelle che mi scrivete, creando una polifonia orchestrale, magica nel silenzio urbano.

Oggi riapro con voi le pagine di questo libro amato, ma mi lascio prendere per mano nel nuovo viaggio da Pietro Citati e dal suo saggio La malattia dell’infinito, una conversazione che intreccia con tanti autori e libri del Novecento.

Quando Calvino iniziò a scrivere, lo fece “con occhi ciechi, città dopo città, senza sapere cosa avrebbe fatto di quelle strane immagini gotiche… poi il libro gli crebbe tra le mani, generando la propria architettura”. La scrittura, infatti, germoglia dalla nostra mente, come da un terreno fertile. Per tornare al discorso di ieri, è il nostro vissuto a fecondare le parole. Occorre vivere bene per scrivere bene.

Per Citati “se vogliamo conoscere il senso dell’esistenza, dobbiamo aprire un libro: là in fondo, nell’angolo più oscuro di un capitolo, c’è una frase scritta apposta per noi”.

Così oggi vi invito a riaprire con me Le città invisibili, mentre state davanti alla finestra, davanti alla sospensione del nostro mondo abituale in questo insolito vuoto e silenzio.

La prima edizione fu pubblicata nel novembre del 1972, ma ci lavorava da tempo. Calvino confida: “mi sono portato dietro questo libro delle città negli ultimi anni, scrivendo saltuariamente era diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le mie riflessioni; tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le discussioni con gli amici”.

Esiste un sottile e misterioso intreccio tra vita, riflessione, scrittura. Sto leggendo in questi giorni saggi su Marx; anche per lui resta aperta un’intricatissima questione critica di ricostruzione di fonti, appunti, quaderni editi, opere, articoli, testimonianze: un intreccio infinito e indissolubile tra chi si è e cosa si scrive domina la verità della scrittura. Ricordatelo quando la vostra penna si avvicinerà di nuovo ad un foglio bianco per comporre un tema in un compito in classe.

Le città invisibili è un insieme di resoconti di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Kan, imperatore dei Tartari, discendente di Gengis Kan.

Kublai Kan possiede un impero, un mondo sterminato e all’apice, ma possiede anche la consapevolezza che il suo sterminato potere conta poco perché il mondo tutto è in rovina.

Anche oggi, guardando fuori dalle finestre, possiamo chiederci la sorte di questo pianeta tra guerre, cambiamenti climatici, pandemie.

Il Gran Kan è l’immagine del potere assoluto. Eppure è pervaso da un senso di vuoto e di malinconia e chiede a Marco Polo un resoconto, che gli dica la verità sul mondo.

Quale verità oggi anche noi possiamo leggere fuori dalle nostre finestre?

Apriamo il libro. “Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo… ma certo continua ad ascoltare”. Insolito inizio per un libro. Non sappiamo dove, come, quando, ma siamo in Oriente, con due personaggi famosi. Siamo nell’altrove della leggenda e del mistero. Ci stiamo interrogando sulla verità del conoscere e dell’esistere. “Non è detto che Kublai Kan creda…”, ma “continua ad ascoltare”.

In fondo, come scrive Citati, “leggere vuol dire spogliarsi d’ogni intenzione e d’ogni partito preso, per essere pronti a cogliere una voce che viene da non si sa dove”.

Un buon lettore deve avere buone orecchie ovvero una grande desiderio, una grande necessità di ascoltare- Questa mattina, guardando fuori, ci chiediamo dov’è la nostra città? È scomparsa? Tornerà?

Nella vita degli imperatori c’è un momento che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato” ed “è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua correzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo”.

Fuori dalla mia finestra oggi c’è un magnifico sole, tra spicchi di cielo, trilli di uccelli, fronde ondeggianti di rami e tanti, tanti germogli e fiori nascenti. La primavera avanza. Io ho nel cuore un centinaio di alunni, la mia famiglia, i miei ricordi, i miei progetti, ma indubbiamente c’è una pandemia in atto che ci costringe a guardare, chiusi in una stanza, questo “impero” globale che abbiamo creato.

Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.

A volte possiamo avere a che fare con “termiti”, che divorano quello che abbiamo.

Kublai Kan ha bisogno di Marco Polo per discernere.

Pagina dopo pagina si trasforma e “i rapporti tra i due diventano sempre più intimi e confidenziali, interrogano in comune, parlano o fumano in silenzio, ognuno è lo specchio dell’altro, e non sanno nemmeno se vivono nella realtà o nella calma penombra della mente”.

Restano fermi, in fondo, proprio come noi, chiusi in una stanza, in una “specola fuori dal tempo”.

Realtà, meditazione e immaginazione in questo libro si fondono, con straordinaria leggerezza e arte.

Amo proprio questo nel libro: la capacità straordinaria di aver lasciato parole eterne, quindi materialmente presenti, nello stesso tempo in grado di elevarsi oltre la pagina e disegnare mondi infiniti.

Ogni città è piena di cose e di parole, ma tutto è segno, emblema di altro, e tutto si moltiplica senza termine.

Ci sono “città infinite: quelle reali, quelle sognate, quelle possibili, quelle impossibili; e cambiano, si trasformano, e proprio così restano identiche al proprio spirito. Calvino procede da una forma all’altra: mai secondo una linea retta” e “alla fine, questo movimento incessante, queste mille città, queste mille strade formano un sistema di rapporti, un Tutto di relazioni visibili e invisibili”.

La città visibile è lì fuori dalle nostre finestre. Le pagine di Calvino descrivono un Impero al massimo della potenza, ma con la malinconia della fine. La scrittura si insinua nei dettagli reali di cose, strade, persone e intesse una fitta trama di immaginazione e meditazione, creando un’architettura meravigliosa, quella della città invisibile ai molti.

Ma, come ci suggerisce Pietro Citati, “non c’è l’harmonia mundi. Non c’è la città perfetta. Non c’è la città giusta. Eppure, nei buchi che ogni tanto si aprono nel libro e nell’universo, Calvino disegna una sua utopia minima. Tra le nostre strade e nello spessore delle nostre giornate, si nascondono dei frammenti isolati, degli istanti separati – “segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie” – che disegnano la città perfetta: trasparente come una libellula, veloce come una rondine, traforata come un pizzo, leggera come la luce della luna, gracile come la nervatura di una foglia”.

Calvino infrange la superficie del reale.

Costruisce visioni di città oltre quello che guardiamo fuori dalla finestra.  Scrive parole che spaccano le pagine, le disintegrano e rendono persino un libro “aereo e luminoso e trasparente”, perché non c’è soltanto un rapporto tra parola e cosa, per intenderci tra il significante “muro” e i mattoni che lo realizzano materialmente. C’è un rapporto tra il significante “muro” e un sistema di variazioni, rapporti, movimenti che quel significante scatena.

Tutto procede essenzialmente per opposti; per esempio, Raissa è la città triste che contiene la città felice. Dunque, “se vogliamo capire una cosa, dobbiamo coltivare quella opposta: se vogliamo conoscere l’alto, dobbiamo conoscere il basso, ma Calvino non si ferma a questa ottica speculare, a questo tema dello specchio già noto alla letteratura. “La realtà polare è trascinata dallo spirito della molteplicità e del movimento. Non ci sono solo città opposte, ma città infinite”.

Non sappiamo a cosa ci conduca questo gioco di incastro e di sovrastrutture, questo lavorio di scavo e di librazione aerea. Non esiste una verità, se non quella famosissima frase conclusiva, che porto nel cuore e che sento troppo ripetere, svuotandola di forza. Per questo non concludo con le parole finali del nostro libro, ma ricordando La giornata d’uno scrutatore.  Dinanzi alla degradazione prodotta dalla malattia, il protagonista si chiede quale sia il confine dell’umano e vedendo un padre che nutre con dedizione il figlio, dice a tutti noi: L’uomo arriva dove arriva l’amore”. Noi avevamo smesso, forse, di amare o amavamo troppo poco.

E’ arrivato il momento per cambiare.

Oggi nella mia “città invisibile”, fuori dalla finestra, Calvino ha disegnato questo: Roma, una città come il mondo, con cupole, statue, piazze, teatri, strade, case, moltitudini di persone e sicuramente un’epidemia in atto, ma anche una città del presente e del futuro, dove l’uomo resta e resterà per sempre uomo, amando gli altri e lottando per il loro bene, proprio come stiamo facendo, chiusi nelle nostre stanze.

 

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