La Zibaldina è un “foglio bianco” a disposizione di tutti quelli che vorranno partecipare ad un racconto collettivo della nostra contemporaneità.

In questo momento del tutto straordinario in cui siamo in piena pandemia per la diffusione del Coronavirus e viviamo restrizioni della nostra quotidianità, la parola va ad un’insegnante che, costretta a sospendere le lezioni ai propri studenti da un giorno all’altro, ha voluto mantenere vivo il dialogo con loro.

Lei è Lilia Bellucci e nelle prossime settimane terrà viva la relazione con i suoi studenti attraverso questo spazio virtuale scrivendo loro delle lettere. Ma leggetele bene, le sue parole sono occasioni di riflessioni anche per tutti noi che studenti non lo siamo più, perché l’isolamento è condizione che in questo momento ci accomuna.

 

IL CONTROCAMPO

La didattica spesso produce una ferita nella conoscenza.

Nell’atto stesso in cui si pone obiettivi, contenuti e strategie, lascia tacitamente sottintesa una verità fondante, che costituisce la ragione stessa del suo essere: la motivazione esistenziale all’apprendimento.

Prima di sedersi in un banco di scuola bisognerebbe aver vissuto, ovvero la scuola dovrebbe essere solo “questione per vecchi”, ma l’esperienza di questa pandemia mondiale è per tutti noi oggi una straordinaria occasione per elaborare quell’archè, quel principio da cui dovrebbe generarsi tutto: la comprensione della necessità vitale della conoscenza.

“Comprensione” etimologicamente è un lemma che include il prehendere, l’afferrare e, quindi, tenere ben stretto. Chiusi nelle nostre stanze e circondati da un silenzio esterno ferocemente ovattato, abbiamo una via d’uscita proprio scoprendo o riscoprendo l’equivalenza studio-vita.

Nella nostra giornata ora è fondamentale mantenere attivo ogni aspetto del nostro umanesimo, del nostro definirci esseri umani. Operazione apparentemente semplice, l’eseguire i compiti assegnati a distanza può rivelarsi un gravame eccessivo, obsoleto e privo di senso; in realtà, è vita. Ci mantiene connessi alla nostra dimensione umana più completa.

Come aiutarci, però, in questo faticoso processo di adattamento? Come ridiventare “scuola” insieme pur stando lontani? Come sentire che i compiti non sono un gravame senza senso, ma anzi un momento vitale importante?

La lezione di oggi è una riflessione sul concetto di controcampo.

Il controcampo è genericamente un campo che si oppone ad un altro. Può essere generato in un dielettrico dai movimenti di polarizzazione in opposizione al campo polarizzante esterno oppure consiste in azioni deceleratrici su cariche in moto. Nel cinema è un rovesciamento di prospettiva, per cui l’inquadratura, pur mantenendosi alla stessa distanza, cambia il punto di vista, rendendolo opposto a quello precedente. Michael Moore non ha rappresentato sullo schermo lo schianto degli aerei contro le Twin Towers, ma si è soffermato sui volti di persone con gli occhi rivolti verso l’alto, verso quello che stava accadendo.

Affacciarsi alle finestre oggi significa osservare con sgomento la scomparsa del nostro mondo abituale, anche quello più fastidioso e rumoroso. Non importa tanto il vuoto del reale, ma la sparizione destabilizzante del paesaggio cardine della nostra esistenza. Non importa se fuori non c’è più il traffico. Importa che fuori non ci sia più il nostro mondo, che è prima di tutto un paesaggio mentale: il caffè al bar, il saluto di un amico, il giornale nell’edicola all’angolo, la partita di calcetto, copiare un compito, litigare con un compagno, abbracciarsi, fare la spesa, correre sulla ciclabile. Persino le più semplici e insignificanti azioni quotidiane appaiono ora dettagli essenziali, la cui mancanza risuona in modo terrificante nel vuoto e nel silenzio fuori dalla finestra. Il nostro paesaggio mentale è stato conquistato e annientato all’improvviso da un nemico invisibile e “liquido”, diffuso, non identificabile con un corpo visibile contro cui lottare. In poche parole, non possiamo uscire fuori e combattere contro un avversario in carne ed ossa, che abbia invaso il nostro territorio, e liberarcene. La nostra battaglia è più difficile: è interiore.

Cosa fare? Occorre mettere in atto la tecnica del controcampo, volgere lo sguardo non solo verso ciò che è o che non è, ma verso la realtà possibile.

Rovesciamo l’inquadratura verso l’interno, che non è solo una dimensione strettamente individuale. Il nostro interno è, infatti, un insieme di voci, azioni, emozioni che hanno attraversato i nostri giorni ed è, indubbiamente, un insieme di legami che esistono ancora e di cui dobbiamo prenderci cura.

Non possiamo non farlo. Sarebbe come se, in giorni di calura estiva senza pioggia, non innaffiassimo le nostre piante. L’attenzione che dedichiamo loro le può rendere, invece, proprio in quelle circostanze difficili, ancor più rigogliose.

Davanti agli occhi non dobbiamo lasciare solo il vuoto, il silenzio, la paura.

Occorre rovesciare l’inquadratura e contrapporre al già visto e sentito, la nostra dimensione del possibile, Noi ci siamo. Noi, con il nostro corpo e i nostri pensieri. Per questo aprite il libro e prendetevi cura della vostra vita, della vostra intelligenza e del vostro sentire, lasciandovi guidare dai grandi del passato. Spogliatevi come Machiavelli dai “panni reali” e indossate quelli “curiali” dello studio, del desiderio di conoscere e di capire, di progettare, di migliorare. Mettete in campo un’azione deceleratrice: opponete alla forza devastante della paura presente e alla frenesia dei giorni passati il movimento creativo del vostro pensiero, del vostro silenzio riflessivo, della vostra curiosità di capire.

Alla realtà della guerra occorre opporre la possibilità della pace, alla paura il coraggio, all’inerzia la partecipazione.

Come scrive Elias Canetti, più che di mete abbiamo bisogno di visioni, pre-visioni davanti a noi. Attuare la strategia del controcampo significa decelare il moto della paura contrapponendo un campo di forze emotive, una visione energetica personale.

Cosa pensate che la vostra macchina da presa possa inquadrare rovesciando la prospettiva, riprendendo il vostro volto, le persone che vi sono vicine, gli animali domestici, gli oggetti quotidiani? Quali ricordi può rievocare in flashback? Soprattutto quale dimensione del possibile potrebbe rappresentare in flashforward? Come sarà ricominciare? Come ci sta cambiando questa esperienza? Quali valori, azioni, pensieri stiamo imparando a riconoscere come essenziali?

Possiamo agire come Serafino Gubbio, l’operatore della macchina da presa nel noto romanzo pirandelliano, e ridurci ad “una mano che gira una manovella” e che osserva passivamente lo spettacolo che ha davanti, ma “la macchina è fatta, per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingoiarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce la ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutto d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli su, uno sull’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li rotola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!”.

Il nostro sguardo deve essere libero, altrimenti ingombra la mente di “scatole, scatolette, scatolone, scatoline”. Non possiamo semplicemente guardare quello che è davanti a noi e che tutto ci invita a guardare. In questo momento i nostri occhi non devono percepire solo il mondo esterno vuoto e muto come una perdita. Dobbiamo utilizzare il controcampo e ridelineare il nostro personale paesaggio mentale, plasmato da ricordi del passato, emozioni del presente, visioni del futuro.

La libertà è negli occhi, come ha scritto Roberto Escobar. L’immagine può diventare strumento di schiavitù per tutti come nel Panopticon di Jeremy Bentham, in cui ogni persona è ridotta al ruolo di “spettatore totale” ed è solo quel che vede, perché esiste uno sguardo disumanizzante, che ci attrae, ma ci priva di noi.

All’opposto, in controcampo, invece esiste la libertà nello sguardo di chi sa sentire, leggere, studiare e comprendere.

Renzo in fuga era attanagliato come noi da due desideri “la voglia di correre, e quella di star nascosto” e il suo cammino verso l’Adda fu inizialmente un addentrarsi inquietante in una boscaglia sempre più fitta e oscura, in cui il timore era accresciuto da quel “non vedere altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia”. Renzo così dimenticò se stesso, chi era, e divenne Paura: “gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna”. I suoi occhi erano abitati da Mostri esterni. Ma “atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse”.  Il capanno in cui trascorse la notte fino all’alba, prima di attraversare il fiume e raggiungere Bergamo, divenne il luogo in cui liberare il piano sequenza della sua vita, perché “appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia… cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno” e “sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrere dell’ore. Dico misurava, perché, ogni mezz’ora sentiva in quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio… quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni… si rizzò, si stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle… soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna e… cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti; lo riconobbe subito, e prese per quello. Il cielo prometteva una bella giornata”.

Il “sentiero” che anche noi abbiamo lasciato prima di addentrarci in questa notte, è ancora lì e ci attende. Il “cielo” sopra di noi è sempre una promessa, quella del possibile, di quello che non è ancora, ma che ci sarà, quando riapriremo l’uscio.

Intanto, fate come Renzo e richiamate al cuore i vostri “spiriti”, tutto quello che fa di voi quel che siete: il carattere, le passioni, lo studio. Abbiate mente sgombra dalla paura e occhi liberi… in controcampo.

 

LILIA BELLUCCI

Lilia Bellucci insegna nei licei. Ha collaborato all’ideazione di un sistema di guida museale, vincitore del premio “Imprenditori per il Giubileo del Duemila”. Ha pubblicato poesie in antologie di autori contemporanei. E’ autrice del romanzo Sulle rive del cuore (Aletti, 2019), dell’opera interartistica Voci dell’anima, del percorso lirico e fotografico Il senso delle cose, della video inchiesta Granelli di sabbia, del prosimetro Fiori di primavera. Tra Oriente e Occidente (Aracne 2020), del testo teatrale La provocazione di Medea. Abitare il sogno (Aracne 2020), dell’antologia Ero(t)ico portamento di gazza ladra (Kubera edizioni 2020). Ha esposto quadri materici e testi nel progetto Percorsi e linguaggi dell’immaginario. E’ stata finalista e vincitrice in concorsi nazionali e internazionali. Sperimenta in un antico borgo in Abruzzo Poesia sulla via.

 

 

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