DI LILIA BELLUCCI
Nel suo saggio Gli spazi dell’anima, Lionello Sozzi esamina il valore che l’uomo attribuisce allo spazio posseduto o immaginato. Un paesaggio intravisto dalla finestra delle nostre case o una camera in cui in questo momento ci si trova confinati hanno, infatti, un significato immediato e concreto: il primo ha in sé la luce che penetra e pone in risalto ogni dettaglio del reale; la seconda è il riparo da elementi avversi ed estranei. Lo stesso spazio acquisisce valori tramite la nostra immaginazione e il nostro pensiero: la visione del panorama rappresenta la liberazione distensiva e consolatoria dello sguardo, mentre la camera diventa rifugio, divertimento o prigionia insopportabile. Nulla, infatti, può restare neutro calcolo di geometra. Tutto ci attira o ci respinge. Tutto si permea di noi.
Lo spazio è, dunque, prima di tutto, vissuto. E’ il nostro pensiero a renderlo unico, arricchendolo con significati, ricordi, immaginazioni.
In questi giorni in cui siamo chiusi in una camera, il saggio di Lionello Sozzi ci ricorda la poetica dello spazio, dove il luogo reale, l’ambiente, il contesto non devono e non possono restare ambiti indifferenti, oggetto solo di misurazione tecnica o di organizzazione funzionale. Ognuno di noi è chiamato a riflettere sullo spazio vissuto e a pensare una personale poetica dello spazio abitato, che permetta di individuare e riconoscere i valori che in esso si possono salvaguardare.
Così la costrizione in una stanza può diventare la straordinaria occasione di un incontro prolungato e non superficiale con la nostra famiglia, per ricostruire affetti, intrecciare legami profondi, dedicare cura e attenzione. In un mondo sempre travolto dall’inseguire il tempo, tutti abbiamo ora la possibilità di lasciarci invadere da questo tempo prolungato e dilatato che si è impadronito di noi.
La stanza in cui ci troviamo chiusi può diventare uno spazio dell’anima.
Cosa vogliamo veder crescere in questo spazio? Quale valore? Il dialogo con la famiglia, un collegamento Skype con gli amici di sempre, un compito di scuola svolto con cura, un gioco spensierato con l’animale domestico o con un fratello o con il nostro passatempo preferito, la lettura di un libro o la visione di un film, un vagare libero della fantasia distesi sul letto e guardando il soffitto.
La stanza in cui siamo rinchiusi si animerà a poco a poco con quanto di noi daremo in questi giorni e, se vivremo bene, diventerà uno spazio dell’interiorità, che ci renderà umanamente più ricchi e che si manifesterà quando le porte delle nostre stanze si apriranno di nuovo verso l’esterno.
La primavera ci attende e mi auguro che sia per tutti una primavera dell’anima.
Petrarca dedica un sonetto del Canzoniere alla sua stanza:
O cameretta che già fusti un porto /
a le gravi tempeste mie diurne
La camera è per lui il rifugio, il porto d’approdo che ripara dalle difficoltà del vivere. Le sue dimensioni ridotte contrastano con la gravità delle “tempeste” nella situazione esterna giornaliera, ma pur nella sua ristrettezza riesce a diventare “porto” intimo e personale, come suggerisce l’affettuoso diminutivo.
Fisicamente limitata, una stanza può equivalere ad uno spazio mentale di riflessione, di lettura, di studio. Alfieri ricorda in un sonetto la stessa cameretta di Petrarca:
O cameretta che già in te chiudesti
quel grande alla cui fama angusto è il mondo
[…]
O di pensier soavemente mesti
solitario ricovero giocondo.
I versi sono basati su opposizioni ossimoriche (cameretta/grande, angusto/mondo, mesti/giocondo), con cui Alfieri coglie e reinterpreta il senso della stanza petrarchesca: un luogo di confronto tra l’io e il resto. Petrarca con la sua piccola stanza trionfa sul mondo angusto e persino i suoi pensieri mesti possono essere soavi, laddove un “solitario ricovero” sa essere giocondo, piacevole per il cuore.
Sono le nostre passioni a farci superare i limiti di ciò che appare. Una stanza può essere prigione, se abbiamo una prigione nell’anima; può diventare, invece, immensa se lasciamo che racchiuda la grandezza della nostra mente.
Anche Machiavelli nella famosa lettera al Vettori racconta del suo scrittoio come del luogo in cui “si spoglia della vesta cotidiana, piena di fango e di loto”, per indossare “panni reali e curiali”. Se fuori ci si muove tra condizioni decise da altri, la camera è il luogo per andare oltre la superficie giornaliera, lasciandosi guidare dai dubbi, dagli interrogativi, dallo studio. I “panni reali” sono la dimensione autentica di noi stessi e spesso sono anche “curiali”, perché la lettura e il pensiero ci elevano nel confronto con i grandi del passato e del presente.
Una camera può essere una biblioteca intera, come accadeva a Leopardi o a Montaigne, ma anche la nostra stanza può diventare un equivalente immaginario nella verifica e nella ricerca di idee e pensieri a cui di solito possiamo dedicare poco tempo, perché “la biblioteca è, più di altri, un luogo dell’anima, uno spazio prediletto perché racchiude sogni, progetti, valori interiori”.
Rembrandt ha raffigurato Il filosofo in meditazione, chiuso in uno spazio circoscritto e immerso nella penombra.
Davanti a lui un tavolo colmo di carte e libri. Intorno oscurità e paresti disadorne, spoglie, fredde. Il suo sguardo è assorto e il capo è chino: un pensiero sembra condurlo lontano e la scala tortuosa appare come la rappresentazione simbolica dei percorsi difficili e oscuri della ricerca della verità e della conoscenza. La meditazione è la luce. Il silenzio è la luce. Questo può illuminare le nostre penombre, la nostra prigionia.
La camera può essere spazio oscuro, ma anche luogo di ricchezza a cui attingere.
Così Pavese:
Tu non muti. Sei buia.
Sei la cantina chiusa,
dal battuto di terra,
dov’è entrato una volta
ch’era scalzo il bambino,
e ci ripensa sempre.
Sei la camera buia
cui si ripensa sempre,
come il cortile antico
dove s’apriva l’alba.
La camera può essere anche divertissement, distrazione, piacere. Lo sanno bene molti di voi, che trascorrono tante ore in videogiochi coinvolgenti, spesso connessi con altri avversari/amici. Già D’Annunzio celebra il languido piacere della camera in cui Andrea attende la sua Elena, rendendo quel luogo il trionfo della Bellezza e dell’attesa dell’Amore:
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch’esalavan ne’ vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d’un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
In questa pagina lo spazio chiuso si dilata. L’immaginazione veicola. Le coppe di cristallo ricordano lo stelo di un giglio e lo stelo di giglio ricorda Botticelli e Botticelli ricorda la Galleria Borghese e Roma e il mondo.
Così i fiori, seppur costretti in una “prigione diafana”, sembrano “spiritualizzarsi”, cioè diventare altro, elevarsi oltre, superare il limite di ciò che appare.
Anche i vostri videogiochi assolvono in parte al bisogno di andare oltre, di incontrare gli amici o di ritornare alla spensieratezza dei giochi dell’infanzia o di emozionarsi nella competizione. Dilatano lo spazio delle camere in un’esperienza di immaginazione. Eppure sentite ripetervi in continuazione di lasciar perdere e vi vengono imposti dei limiti. La differenza tra un videogioco divertente e il resto consiste nel modo in cui attraversiamo e animiamo quel luogo. Difendete sempre la libertà e la profondità del vostro pensare. Non lasciate che coincida esclusivamente con i luoghi disegnati e progettati da altri e analizzate sempre criticamente i valori che quello spazio vissuto crea dentro di voi. Un videogioco in cui si esalta la violenza educa alla violenza.
Teresa d’Avila ci parla, invece, di un castello dotato di molte stanze, disposte concentricamente, alcune in alto e alcune in basso, altre ai lati. E’ uno spazio abbondante, senza fine, ricco e fastoso: è il palazzo dell’anima, in cui al cui centro c’è un trono, che è il nostro cuore. Esiste dentro ognuno di noi un castillo interior, un castello in cui esprimiamo la nostra suprema dignità, la nostra “regalità” di esseri umani.
Abitate i vostri spazi, le vostre camerette, con i sogni, i pensieri, i progetti, degni di un “castello interiore”.
Sono molteplici gli esempi nella letteratura di stanze segrete, liete o tristi, aperte o chiuse, intime o condivise. Voi stessi potete divertirvi a cercarle, prima di tutto in Manzoni, che conoscete bene: la stanza di Don Abbondio, lo studio di Azzeccagarbugli, la camera di Lucia e dell’Innominato, la cucina di Tonio. Come noterete, ogni spazio esprime il vissuto interiore: l’ambiguità, il compromesso, la fede, l’onestà, il dubbio, la solidarietà.
Accade a volte che siamo costretti a rimanere in uno spazio angusto, ma quell’isolamento e quella solitudine possono essere superati dalla dilatazione che ci consente il pensiero. E’ una dilatazione libera, ma non priva di significati. Così se Pascal scriveva che “Tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una sola cosa, dal fatto che è incapace di trovare la sua quiete tra le pareti di una stanza”, io vi auguro di saper abitare le vostre stanze e di far in modo, come cantava Gino Paoli, che non esistano più pareti, ma “alberi infiniti” e che entri “il cielo”, “l’immensità del cielo”.
Cosa ci sarà nel vostro “cielo”?
Nel mio vorrei ci fosse prima di tutto un sentimento: la solidarietà. Solidus significa saldo. Niente ci rende più forti del sostegno reciproco, della coscienza di essere parte di un insieme unico, della partecipazione e della fratellanza in cui nessuno è lasciato indietro o solo.
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